9.4.08

LABBRA AL NEON - PROLOGO


Conobbe una ragazza cieca
La amò e condivise il suo dolore
Poi vide una stella cadere dal cielo
Espresse il desiderio che lei potesse vedere.
Lei schiuse i suoi occhi quella stessa notte
E lo lasciò per sempre.

Antonin Artaud

IL VOLO DI GRIGORIJ


“La sua memoria si placa. Fino al prossimo plenilunio nessuno turberà il professore né il carnefice senza naso di Hestas”.
– Davvero un bel libro. Davvero. Peccato che adesso devo morire e non potrò consigliarlo a nessuno.
Così Grigorij chiude, con enfasi quasi marziale, l’ultima pagina de “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov.
La stanza era illuminata da una fila di candele sul pavimento fissate su bottiglie di vino vuote con la cera di vari colori sciolta e indurita su lati a formare variegati arabeschi.
Il resto della stanza è solo fumo e dipinti di gatti.
Gatti spaventosi e terribili.
Gatti che sembrano conoscere verità che l’uomo ancora ignora.
Grigorij amava dipingere nel tempo libero.
Dipingeva sempre e solo gatti.
Gatti fiabeschi, gatti inquietanti.
Gatti che conoscono verità che all’uomo sono precluse.
Gatti a volte troppo grandi per essere gatti, o con sguardi troppo maligni per essere creature di Dio.
A volte dipinge solo un particolare: una zampa, un occhio, una schiena inarcata che si staglia contro un cielo gonfio e livido, oppure solo una coda che guizza in una camera da letto del futuro, lucente d’ acciaio e fredda nelle geometrie.
Grigorij ha solo la sua canottiera nera a coprirgli i tatuaggi sul petto. Si guarda le braccia. Anche i disegni più netti sono ormai grinziti insieme alla pelle.
– Ma quanti anni ho? – si domanda con la sigaretta che gli vibra in punta delle labbra.
I tatuaggi sono il suo diario di bordo.
Ogni significativo momento della sua vita se lo è marchiato sulla pelle. Ha ragionato su quali simboli avessero potuto racchiudere quel fatto, quelle emozioni, quella tragedia, quel dolore o quel trionfo e poi se li è fatti tatuare. Con il suo piccolo spettacolo ha lasciato Valka per girare i continenti, e ha avuto modo di farsi tatuare da ogni tipo di persona.
Vecchi avanzi di galera, ragazzine rockettare, clandestini, professionisti, una bella signora giapponese, un italiano alcolizzato e diversi grassi bikers.
L’unico tatuaggio che non guarda con piacere, l’unico contro cui neanche il ruvido passare degli anni sulla pelle ha potuto nulla, è quello lungo l’avambraccio.
Le dodici cifre con la data e l’ora del giorno nero di Vittoria.
Grigorij ha sempre affrontato i suoi viaggi con pochi euro in tasca, e chiedeva sconti a tutti in cambio dei biglietti per i suoi spettacoli o in cambio della restante metà della sua bottiglia di rhum.
A molti faceva solo un’immensa pena, altri ne erano spaventati e coprivano gli occhi ai loro figli, disgustati non tanto dalla sua spaventosa magrezza e dai tatuaggi quanto dalla sua schiena flessibile, snodabile, deformabile.
Deforme.
Proprio grazie ad essa ha raggiunto la fama nei freakshow e negli spettacoli burlesque delle periferie di mezzo mondo con il nome d’arte de Lo Straordinario Serpentino.
Dovrebbe ringraziare la Centrale.
Si è suicidata regalando un fallout radioattivo e novanta anni di contaminazione a tutta l’area, ma ha fatto anche abbassare drasticamente il costo degli affitti e i poveracci come lui, e come Mich Sarah e Ribka, non hanno potuto far altro che riavvicinarsi a quei luoghi.
Ora dallo stereo nella stanza accanto sfumano, tra i primi raggi del mattino, le ultime veloci note di Lust for Life.
– Dovevo leggermelo prima, tanti anni prima. Avrei anche fatto colpo su Ribka. Mi avrebbe chiesto se conoscevo Bulgakov e io le avrei risposto: “Ma certo, tesoro. Ricordo anche a memoria l’ultima frase de “Il Maestro e Margherita”. Senti qua…” E le avrei trafitto il cuore. Bah, non diciamo sciocchezze. Un freak è solo un freak, anche se è freak che ha letto Bulgakov.
Grigorij è in piedi ad infilarsi la sua camicia preferita, quella viola che gli ha regalato Chrome quando lo ha ospitato per un mese in Germania. Avrebbero dovuto rivedersi tra due anni, a mezzanotte, qui a Valka, sulla tomba di Vittoria, insieme agli altri.
– Spero non si offendano, ma la pace che ci siamo promessi non sono riuscito a sentirla in nessun luogo. Mai.
Pensa mentre si abbottona con calma la camicia.
Poi prende le sigarette, esce dall’appartamento e sale le scale fino alla terrazza sul tetto.



La terrazza sul tetto.

Ampia e vuota.
Contro il rosso del cielo che recede, le aguzze cime delle montagne di Gaizinkal che stringono Valka formano una linea irta di punte come l’elettrocardiogramma di un giorno che muore.
Fa freddo.
Puzza di smog e immobile indifferenza.
Dall’altro lato, il cavalcavia dell’autostrada, fiancheggiata da alti cartelloni pubblicitari, dove marciano i camion a portare in giro, come diceva Vittoria, la “polvere del mondo”.
Lo sguardo di Grigorij, si abbassa sul complesso dritto di fronte a lui: il titanico stabilimento color Bario 131 della Painstav, attraversato da un velo di nebbia appena percepibile. La fabbrica che da lavoro a tutti i giovani e i meno giovani di Valka.
– Grande bastardo di quindici piani, mi hai privato della luce per tutti questi anni.
E sputa giù.
Poi si accende una sigaretta contemplando quel brontosauro di lamiere annerite e tubi tra i quali si stagliano tre lunghe sporche ciminiere come tre nere dita mozze a ghermire il cielo. Il cuore di tenebra di questo paesino di metallo, ruggine, fumo, freddo, fame, carbone, radioattività, violenza, sesso clandestino, malattie dell’apparato respiratorio e un ridicolo cartello alle porte della città:

Benvenuti a Valka
Comune amico del Nucleare

Estinta la sigaretta, sputa il mozzicone.
Poi si sfila l’anello. Un sinistro cerchietto di metallo annerito coronato da un acuminato uncino. Lo getta di sotto.
– Prego, prima tu – sibila tra i denti.






Settimo piano, l’attico.

Mentre Grigorij precipita, i suoi occhi vengono feriti per un istante dalla sfavillante luce riflessa nel collier di Vaira Gunvaldis che alza il calice sfavillante in sintonia con suo padre, il colonnello Gunvaldis e con una ventina di sfavillanti ospiti. Lo sfavillìo incantevole sul collo di Vaira si riflette nello sfavillìo del sorriso di Armand, il portaborse di suo padre.
– É fatta Sindaco! Ora comandiamo noi. E da domani sono cazzi loro.
Lo sfavillare incantevole della luce della gioia di Armand si riflette sullo smeraldino in bocca alla testa di leone d’oro che troneggia sull’anello d’oro dell’anziano Janis, che pizzica senza sosta le guance del nipotino Lukas. L’anziano Janis ha imbustato e spedito insieme ai suoi tre figli quattromiladuecento e due lettere agli elettori e ha poi distribuito migliaia di sfavillanti santini elettorali per il candidato sindaco colonnello Gunvaldis al mercato del Parco 36, poi sulla piazza del Cavallo Buio, all’uscita della Painstav, alle scuole, davanti alla chiesa di padre Manfred, nel quartiere Bianco, dentro allo Snack Bar Poe, al Coral Club e ovunque transitasse qualcuno che abbia diritto di voto. Da quello sfavillante smeraldino la luce si riflette sulla montatura d’oro degli occhiali di Srecko, fidanzato storico della figlia Vaira nonché autista del neo-sindaco Gunvaldis. Srecko guarda la sua fidanzata con occhi colmi d’amore e soddisfazione pensando:
– E se manco adesso mi sposi, puttana alcolizzata, ti passo sopra con la macchina tante di quelle volte che finalmente potrai farci credere di essere dimagrita.
La montatura degli occhiali di Srecko sfavilla incantevolmente oltre filari di perfetti scaffali in acciaio e tek strepitosamente privi di libri, utilizzati per reggere vasi di fiori, riviste di moda di diversi formati, fino al solito eterogeneo zoo di bomboniere di cristallo.
Deflesso da una piccola sirena di cristallo, lo sfavillìo schizza fino alle unghie smaltate d’argento di Nataljia Gunvaldis, moglie ufficiale del colonnello Vladimir Gunvaldis che pensa:
– Dio, ora che torno da quell’arpia di commessa che non voleva farmi lo sconto, ora che ci torno che sono la moglie del nuovo Sindaco di Valka, mi faccio leccare i piedi fino alla prossima legislatura.
Finchè lo sfavillìo giunge al capolinea, infrangendosi nei magnifici lucidi occhi vincenti del nuovo sindaco, il colonnello Vladimir Gunvaldis.
– Ho vinto io. E ora che mi levo dalle palle ‘sta mostra-mercato di zerbini umani, andrò a far sentire a Giulietta come scopa un vincente.



Sesto piano

– Finalmente – pensa in un’istante Grigorij, mentre prosegue la caduta – finalmente vedo quel diavoletto.
Grigorij non aveva mai visto in faccia il bambino che viveva al sesto piano, ma lo beccava sempre a sgattaiolare via dal suo apprtamento dopo avergli svaligiato il frigo quando lasciava la porta aperta andando a buttar giù l’immondizia.
Il piccolo Jan, avvolto in una lacera giubbetta militare di un qualche ex-esercito smantellato, ha la testa fasciata, un lato della faccia gonfio e il labbro rotto. Trema scosso da brividi e suda appoggiato con le braccine al davanzale.
Aspettando il corpo di Grigorij.
Come Grigorij viene giù, Jan gli fa cenno con la mano, sorridendo.
– Ciao Serpentino. E Grazie di tutto.



Quinto Piano

Al quinto piano la saracinesca è abbassata.
Peccato pensa Grigorij.
In ogni caso Lo Straordinario Serpentino non avrebbe potuto dare il suo fulmineo saluto al vecchio Dimitri poiché il suo cadavere si sta decomponendo sul letto ormai da nove giorni.
Maru, il figlio, lo chiama solo a fine mese, quindi se ne accorgerà tra circa un paio di settimane.
Ogni venerdì il vecchio manifestava delle brutte macchie alla base del collo e sui polsi. Sempre e solo di venerdì.
Maru si limitava ad obbligare il vecchio a non fumare più la pipa con vari urlati diktat solo per esercitare su di lui un po’ di autorità.
In realtà ogni giovedì pomeriggio Dimitri invita Jelena a fargli visita nel suo appartamento. In realtà Jelena si chiama Giulietta, ma il vecchio preferiva chiamarla con il nome del suo primo amore sbocciato ai tempi della Scuola Primaria di Tomsk. Quando si vestiva sempre con le sdrucite camice di flanella a quadretti grandi di suo padre, dimenticandosi puntualmente di abbotonare almeno una delle due punte del colletto. Non rivide più Jelena, ma il ricordo di lei crebbe durante gli anni passati a lavorare nella base militare di Ventspils. Crebbe nei suoi pensieri e nello stretto albergo del suo cuore, collocandosi nella suite di “colei che sarebbe stata la donna giusta, la donna che mi avrebbe reso felice”.
E se finalmente, dopo tutti quegli anni, il vecchio Dimitri era riuscito a sedurre Jelena, di certo non poteva permettersi le figuracce dell’età.
Per questo motivo ogni giovedì, dopo aver sistemato per bene i bottoni del colletto della camicia, s’imbottiva di Viagra.
Mostrò ben presto, però, i sintomi di un’allergia che si fece sempre più aggressiva.
L’allergia al Viagra lo aveva messo in guardia tante volte con quelle macchie alla base del collo e dei polsi, ma il vecchio Dimitri non aveva alcuna intenzione di farne a meno perché non poteva di certo deludere la sua Jelena, che lo ha aspettato per oltre sessant’anni.
Nove giorni fa, poco dopo che Jelena era tornata a casa, iniziò a sentirsi la pressione particolarmente bassa e la laringe sembrava gonfiarsi rapidamente fino a ostruirgli il respiro.
Senza telefono né cellulare, crollò a terra cercando di raggiungere la maniglia della porta con le sue mani che diventavano sempre più scure e gonfie.
Comprendeva bene che lo shock anafilattico lo stava uccidendo, ma nei suoi occhi brillava ancora, piena e inossidabile, la soddisfazione di aver avuto, seppur negli ultimi mesi di vita, la donna dei suoi sogni, la donna giusta, la donna che amava fin dall’adolescenza.
– C’è gente che vive, lavora e poi crepa senza mai averla avuta ‘sta fortuna.
Si disse Dimitri prima di soffocare.



Quarto piano

L’appartamento di Grigorij. La porta d’ingresso si apre e Dola, sua figlia, fa capolino all’interno. Per un maledetto frammento d’istante, il suo sguardo incrocia quello del corpo del padre che precipita. Cadrà in ginocchio, si getterà a pancia a terra e non avrà più il coraggio di rialzarsi. Lo shock la condurrà a trascorrere il resto dei suoi giorni nella casa di Cura di Villa 36, costantemente distesa sul freddo pavimento di mattonelle grigie, senza mai più volersi alzare.
Per paura di cadere anche lei.



Terzo piano

L’appartamento è completamente vuoto tranne per un robusto gatto rossiccio che attende in un angolo. Uno dei “modelli” preferiti di Grigorij.
Sul pavimento è disegnato con della vernice rossa un immenso numero trentasei.
Nell’aria filtra del jazz in filodiffusione.

Fly me to the moon
And let me play among the stars
Let me see what spring is like
On Jupiter and Mars

Il gatto rimane fermo immobile come un vero professionista.
Spera che la risposta che ha tracciato possa essere ultile a Grigorij
quando raggiungerà
l’inferno.



Secondo piano

La finestra è aperta su una stanza buia, un telefono squilla a vuoto.
Un paio di forbici luccicano ai piedi di un grosso specchio tribale, triangolare, con la cornice di ebano nero intarsiato.
Nell’istante in cui precipita, Grigorij si riflette nello specchio, e si vede morire.



Primo piano

Al primo piano le finestre sono aperte su una tendina gialla maltrattata dal vento con il logo di una marca di patatine.
Il divano è lacero in più punti, le pareti sono dipinte d’azzurro da un pennellaccio affetto come minimo da alopecia. Accanto al frigo, tempestato di magneti come se avesse il morbillo, era appeso un grande quadro fatto di Grigorij. Raffigura una sinuosa gatta moschettiera che mena un fendente all’aria con tanto di cappello nero a falda larga con piuma, indossando provocanti stivali di pelle nera con tacco di lucido metallo.
Al posto delle pupille ha due minuscole mani rosse, dal palmo aperto.
Giulietta dormiva beatamente davanti alla grande Tv a cristalli liquidi, regalo del colonnello Gunvaldis, che, poggiata su una colonnina di finto marmo venato, trasmetteva a volume troppo forte un reality show dove un uomo in pigiama tenta di riprodurre l’inno nazionale lettone intonando Dievs, svētī Latviju! con i suoi rutti, per dilettare gli altri concorrenti e il pubblico a casa.
Giulietta non partecipa a questa ilarità, perché il suo corpicino di ventenne, che di anni ne dimostra a volte quindici a volte quaranta, riposa languidamente sul divano con una gamba bianca liscia che penzola fuori.
L’unico che non le abbia mai chiesto di fare sesso.
Almeno fino ad oggi.
Beatamente dorme, Giulietta, usando come improvvisato cuscino il bel vestito che le faceva sempre indossare il vecchio Dimitri. Dolcemente dorme Giulietta ma non sogna né principi azzurri né una vita migliore. Sogna solo una grande, gigantesca, immensa coppa di gelato alla stracciatella e cocco con due belle cialde conficcate come due antennine. Sogna quella bella coppa di gelato, la celebre “coppa super-gusto” che la mamma le comprava a Rīga ogni domenica d’estate.
Non doveva pensare a niente. Solo sorridere e mangiare il gelato e sporcarsi e sorridere e poi mangiare ancora.
Non doveva pensare a niente, né a piacere, né a guadagnarsi da vivere, né a scorticarsi via di dosso l’odore di quei porci né a nascondere bene i soldi, né a medicarsi i lividi.
Doveva solo affondare quel cucchiaione nel gelato, che gli colmava gli occhi di bontà e di golosa bellezza, e tirare su quel cucchiaione bello buono colmo di gelato e mangiare e mangiarselo tutto felice, sotto gli occhi felici e colmi d’amore di sua mamma, che non diceva nulla se non “è buono, vero, tesoro mio?”.
Non doveva pensare a farsi i test dell’Hiv ogni tre settimane per sapere se era viva o morta.
Non doveva fingere di essere una giovane ebrea da interrogare per il colonnello Vladimir Gunvaldis.
Non doveva immaginarsi che faccia potesse avere suo figlio, oggi che avrà sei anni da qualche parte nel mondo.
Non doveva pensare che quello psicopatico che chiama sempre alle 23.10 potrebbe entrare dalla finestra adesso e sgozzarla con un filo di nylon come le ha sempre promesso di fare.
No.
Lei doveva pensare solo a nuotare felice in quella bella grande coppa di gelato che nessuno le offrirà mai più.
Nuotare in quella grande bella coppa di gelato, lei piccola indifesa con la mano nella mano della mamma, e quando il gelato finiva, sarebbe tornata a casa a mettersi comoda per godersi due ore di colorati cartoni animati e la felicità e le risate e lo stupore sarebbero proseguiti stringendo sempre il caldo tepore della mano della mamma e tutto questo la faceva sorridere nel sonno, la faceva un po’ sorridere nel sonno ma le avrebbe reso insopportabilmente più amaro, molto più amaro l’odiato risveglio.

Grigorij in quell’istante ha voglia d’innamorarsi di Giulietta.
Ma in fondo lui non ha bisogno di lei, ne di nessun’altra, perché è Lo Straordinario Serpentino e domani tutti i suoi fan e tutti i suoi spettatori e tutti coloro che l’hanno deriso, amato, umiliato o reso famoso piangeranno per lui.

Ed è con questa speranza che Grigorij dedica a tutti loro un ultimo, definitivo, violentissimo bacio d’addio contro l’asfalto.

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