6.2.09

CONFESSIONI DI UN SAGITTARIO per chi non conosce Pescara o la conosce troppo









Sagittario.
Pescara, è nata il 6 dicembre di ottanta anni fa. Sotto il segno sagittario, come me.
Non avevamo molto altro in comune, io e lei. E infatti ero certo che l’avrei lasciata. L’avrei lasciata non appena ne avessi trovata una meglio.
Una città migliore, più aperta, più eterogenea culturalmente e socialmente con più stimoli, con più idee.
Ero certo che, finita la scuola, a Pescara l’avrei lasciata, e a brutto muso, senza troppe spiegazioni. Questa relazione si era fatta troppo stretta per me, mi sarei dovuto liberare una volta per tutte dal suo abbraccio soporifero. Invece eccomi ancora a vedere albe e tramonti tramite i suoi occhi di cemento, ed è sempre nel suo corpo che i treni mi riportano, alla fine del viaggio.
Sofferenza, frustrazione, imborghesimento, arrendevolezza, rassegnazione?
Può darsi, ma non è detto.
Pescara o non Pescara?
Non è poi così importante.
Pescara rimane un paesino ottuso di fighetti e palazzinari o a Pescara la cultura e la socialità stanno rifiorendo con respiro europeo?
Non chiedetemelo, non oggi.
Oggi penso a ieri, a quando le serate non finivano mai e si spendeva poco e ci bastava così poco per essre felici e Pescara era una terra da assaltare, da mordere, dove tutto era così semplice e le notti erano sempre meravigliose e non finivano mai.
Perchè i nostri erano occhi di ragazzi, quindi pronti allo stupore, anche troppo.
Da ragazzo ero settario, radicale e intollerante, ma forse facevo bene e oggi un pò mi manco.
Eravamo una frega punk, ma proprio una frega. Ci si vedeva al vecchio parco Florida, per divertirci bastava uno stereo con una cassetta dei Ramones, due birrette e quella fortissima amicizia basata anche su una comune visione della società. Eravamo tutti brutti tranne le ragazze. Creste, borchie capelli colorati. Credevo fossimo così brutti perchè eravamo punk, mentre invece oggi, che al posto del chiodo ho una giacca e non ho più i capelli blu, continuo a non somigliare ancora proprio per niente a Johnny Depp. Ma neanche un pò. Forse stavo meglio prima. Spendevamo poco. Solo sottomarche. Non low-cost, proprio solo sottomarche. Di tutto, ma solo sottomarche. Non perchè eravamo consumatori consapevoli, solo perchè non tenevamo una lira. I soldi erano davvero pochi, i cinema stavano tutti chiudendo, i locali che ci facevano entrare erano sempre di meno, ma la notte restava sempre la nostra vera casa. Noi sempre più brutti, i buttafuori sempre più chic, ma la notte, la notte degli innamoramenti a senso unico, delle chiacchierate fino all’alba, delle risate e delle amicizie strette per l’eternità, quella notte rimaneva dalla nostra parte. E non c’erano i cellulari attraverso i quali i genitori potevano avvertirci che: “sguazzò mo ch’arturn a la cas’ t’apr’la coccia!!!”. Spendevamo poco per mettere da parte i soldi per andare l’estate a Londra, o nel fine settimana a Bologna, a quel concerto o in quel centro sociale ed eravamo presenti a tutte le manifestazioni, sui sedili piu in fondo possibile del pullman organizzato che parte dalla stazione vecchia sempre in ritardo per aspettare a noi. Tutto ci incuriosiva, di tutto si poteva e si doveva discutere: dalla letteratura alle sottomarche delle birre, dalla politica alle sottomarche delle birre, dal cinema alle sottomarche delle birre, dalle sottomarche delle birre alle sottomarche dei wurstel.
Poi la scuola finì, il parco Florida chiuse, crollò il nostro Muro di Berlino, e il suicidio di uno di noi, Daniele Salle, ci lasciò un vuoto imprescindibile, insormontabile. Niente poteva più essere uguale all’estate prima. Pescara ci apparve di colpo più ostile, più estranea, più soffocante, più insopportabile. Molti di noi andarono via, quasi tutti. Io persi mio padre e non avendo fratelli né sorelle né cugini né zii né nessun altro rimasi a Pescara a dare una mano a mia madre.
Restai a Pescara.
Sopravvivere a Pescara.
Dovevo sopravvivere a Pescara.
Mica pizza e fichi, cazzo.
Presi a scrivere tutto, di tutto, su tutto. Iniziai a scrivere di più e a viaggiare di più, perchè Pescara non era più niente per me, non offriva più niente, solo cemento, indifferenza, cretinate estive che scimmiottavano pallidamente la riviera romagnola. I buttafuori erano sempre di più e sempre più chic mentre io restavo brutto uguale.
Ma io scrivevo, scrivevo perchè sapevo che li avrei fottuti o se non li avessi fottuti me ne sarei fottuto, ma giacchè dovevo fottermene forse facevo prima a fottermene direttamente e così me ne sono fottuto, della città e dei suoi buttafuori chic, e inizia a scrivere per creare mondi e città che mi portassero più lontano possibile da quì. Ci stavo riuscendo. Nel 1998 pubblicai il mio primo libro, e quando un buffo programma di Canale 5 venne ad intervistarmi e mi chiese di parlare di Pescara la risposta non poteva che essere:
- Pescara? Fatti suoi.
Non mi sento affatto pescarese, e comunque non so che cosa significhi essere pescarese, a parte forse andare allo stadio ad odiare qualcuno... non so, poi prendere il gelato a Camplone... fare le multe a sfregio... dire spesso “ma guard’ a cullù”... queste cose quà, credo.
Non mi sento neanche italiano, magari un pò europeo mi ci sento, ma forse lo dico solo per essere alla moda.
- Sono europeo e adriatico. Me lo dai ‘sto bacio?
- No, devi sentirti almeno anche americano ed equidistante tra palestinesi e israeliani e non vedere differenze tra destra e sinistra.
- Ok allora mi bacio da solo.
Cultura?
Mmh...
Nel mondo e in Europa, culture, filoni letterari e di cinema, estetiche, generi musicali nascono e muoiono e rinascono e partoriscono altri generi mentre in Abruzzo si continua a buttare soldi nel solito recupero delle vecchie tradizioni, pizzi, merletti e antichi mestieri in piena era del cognitariato. Meno male che abbiamo l’arrosticino, il buon vino e una magnifica natura, ma su questo ho scritto anche troppo.
Negli ultimi anni sono tornato a rivedere i ragazzi e le ragazze con cui ho passato la mia adolescenza a Pescara, e cerco di vedere con i loro occhi e cerco di sintonizzare i miei occhi con i loro, e cerco di vedere questa città con lucidità, confrontandola sia con le altre tante città dove siamo stati che con quella immagine di città che avevamo negli occhi in quelle sere al parco Florida, o al Club 99, o al Base, o all’Altra Città. Quelle sere in cui si spendeva poco, ma davvero poco, e ci si divertiva tanto e la notte non finiva mai.
E i nostri sorrisi scemi la illuminavano tutta.
La illuminavano tutta quanta.
Cosa ne è venuto fuori?
Mmh.
Che ora siamo cresciuti, e che prima eravamo solo scemi?
No.
Personalmente, sono cresciute le pagine che ho scritto, gli arrosticini mangiati, il vino bevuto, le multe prese, ma le sottomarche continuo a preferirle agli originali. Qualche capello bianco è spuntato a salutare i miei semplici e banali trentunanni, magari ricordo meno bene qualche testo dei Ramones, ma neanche l’ombra di cedimenti fisici né mentali nonostante continuo a non trovare tempo né per lo sport né per la spiritualità.
Allora è l’opposto: prima eravamo i punk, eravamo i fregni e ora ci siamo imborghesiti?
Secondo me no.
Noi no, ma Pescara?
Pescara vive ora una sua primavera?
Be, di sicuro non è al suo inverno.
Il punto è che ogni città è troppo piccola per chi ama vivere, e per chi vuole vivere davvero. Per ognuno di noi ce ne vorrebbero cento di città. La città dove vivi ancora quei ricordi, la città dove andresti a lavorare, la città del tuo primo viaggio da solo, la città dove torneresti in vacanza, la città dove vive quella persona che ti piace così tanto o quella che hai amato anni fa e poi la città che non esiste, la città delle tue utopie, e infine la città dove ti arrivano le bollette.
Cultura?
Nessuna città può avere tutta la cultura che chi ha veramente sete di cultura necessita.
Così come nella vita avere un solo punto di riferimento, che sia un’ideologia, una religione, una persona o una sola passione é pericoloso per la salute della propria felicità, oltre che morboso e, diciamocelo, un pò triste.
No. Cento passioni, cento sogni, cento città dove far vivere il proprio cuore e le proprie attività.
E tra queste cento, secondo me, Pescara ci sta bene.
E’ una città borghese, affaristica, fighetta, ignorante, provinciale, presuntuosa. E’ una città piena di traffico, di smog, di palazzinari che vogliono sputare albergacci sulla spiaggia. Ma queste sono maledizioni che vanno fronteggiate su una scacchiera che è l’intera società globale, affrontate quartiere per quartiere e città per città. Non c’è modo di fuggirne. Non c’è appartamento nel quartiere di Kreuzberg a Berlino o di Camden a Londra o sulle Ramblas di Barcellona dove ti verrà garantito che non arriverà un De Cecco a costruirti qualche pupazzone davanti alla finestra.
Ci sono tanti ragazzi e ragazze nelle cui vene scorre il sangue di tante città, di tante esperienze, di tante vite, di tante possibilità.
Alzare gli occhi oltre la torre civica, guardare oltre, più in alto e più lontano.
Vivere a Pescara senza morire pescaresi.
Mescolare il nostro sangue con il sangue del mondo.
L’identità è fluttuante e permeabile, mi spiace per gli ariani.
Muoversi, spostarsi, translare, viaggiare.
Vattene, se hai i soldi per farlo.
Non ce ne vogliono necessariamente molti, ma di certo non ce ne vogliono pochi.
Vattene se non hai ancora messo radici.
Vai all’agippone a fare il pieno di benzina e vattene.
Magari però poi torna quì ogni tanto, così ci racconti.
Riportaci qualcosa.
Qualcosa di nuovo.
Qualcosa di vero.
Qualcosa di altro.
Dai, torna ogni tanto.
Torna perchè questa non è la peggiore delle città possibili.
Torna che ci raccontiamo ciò cui abbiamo abbeverato lo sguardo, il cervello, le labbra, le ossa, i sogni.
Torna, dai, che non si sta poi così male.
Poi se vuoi riparti, e magari verrò con te.
Nel frattempo ti aspetto quì, a Pescara.
Per adesso.
Finchè i supermercatini continueranno a vendere le mie sottomarche preferite.

..



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9.4.08

LABBRA AL NEON - PROLOGO


Conobbe una ragazza cieca
La amò e condivise il suo dolore
Poi vide una stella cadere dal cielo
Espresse il desiderio che lei potesse vedere.
Lei schiuse i suoi occhi quella stessa notte
E lo lasciò per sempre.

Antonin Artaud

IL VOLO DI GRIGORIJ


“La sua memoria si placa. Fino al prossimo plenilunio nessuno turberà il professore né il carnefice senza naso di Hestas”.
– Davvero un bel libro. Davvero. Peccato che adesso devo morire e non potrò consigliarlo a nessuno.
Così Grigorij chiude, con enfasi quasi marziale, l’ultima pagina de “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov.
La stanza era illuminata da una fila di candele sul pavimento fissate su bottiglie di vino vuote con la cera di vari colori sciolta e indurita su lati a formare variegati arabeschi.
Il resto della stanza è solo fumo e dipinti di gatti.
Gatti spaventosi e terribili.
Gatti che sembrano conoscere verità che l’uomo ancora ignora.
Grigorij amava dipingere nel tempo libero.
Dipingeva sempre e solo gatti.
Gatti fiabeschi, gatti inquietanti.
Gatti che conoscono verità che all’uomo sono precluse.
Gatti a volte troppo grandi per essere gatti, o con sguardi troppo maligni per essere creature di Dio.
A volte dipinge solo un particolare: una zampa, un occhio, una schiena inarcata che si staglia contro un cielo gonfio e livido, oppure solo una coda che guizza in una camera da letto del futuro, lucente d’ acciaio e fredda nelle geometrie.
Grigorij ha solo la sua canottiera nera a coprirgli i tatuaggi sul petto. Si guarda le braccia. Anche i disegni più netti sono ormai grinziti insieme alla pelle.
– Ma quanti anni ho? – si domanda con la sigaretta che gli vibra in punta delle labbra.
I tatuaggi sono il suo diario di bordo.
Ogni significativo momento della sua vita se lo è marchiato sulla pelle. Ha ragionato su quali simboli avessero potuto racchiudere quel fatto, quelle emozioni, quella tragedia, quel dolore o quel trionfo e poi se li è fatti tatuare. Con il suo piccolo spettacolo ha lasciato Valka per girare i continenti, e ha avuto modo di farsi tatuare da ogni tipo di persona.
Vecchi avanzi di galera, ragazzine rockettare, clandestini, professionisti, una bella signora giapponese, un italiano alcolizzato e diversi grassi bikers.
L’unico tatuaggio che non guarda con piacere, l’unico contro cui neanche il ruvido passare degli anni sulla pelle ha potuto nulla, è quello lungo l’avambraccio.
Le dodici cifre con la data e l’ora del giorno nero di Vittoria.
Grigorij ha sempre affrontato i suoi viaggi con pochi euro in tasca, e chiedeva sconti a tutti in cambio dei biglietti per i suoi spettacoli o in cambio della restante metà della sua bottiglia di rhum.
A molti faceva solo un’immensa pena, altri ne erano spaventati e coprivano gli occhi ai loro figli, disgustati non tanto dalla sua spaventosa magrezza e dai tatuaggi quanto dalla sua schiena flessibile, snodabile, deformabile.
Deforme.
Proprio grazie ad essa ha raggiunto la fama nei freakshow e negli spettacoli burlesque delle periferie di mezzo mondo con il nome d’arte de Lo Straordinario Serpentino.
Dovrebbe ringraziare la Centrale.
Si è suicidata regalando un fallout radioattivo e novanta anni di contaminazione a tutta l’area, ma ha fatto anche abbassare drasticamente il costo degli affitti e i poveracci come lui, e come Mich Sarah e Ribka, non hanno potuto far altro che riavvicinarsi a quei luoghi.
Ora dallo stereo nella stanza accanto sfumano, tra i primi raggi del mattino, le ultime veloci note di Lust for Life.
– Dovevo leggermelo prima, tanti anni prima. Avrei anche fatto colpo su Ribka. Mi avrebbe chiesto se conoscevo Bulgakov e io le avrei risposto: “Ma certo, tesoro. Ricordo anche a memoria l’ultima frase de “Il Maestro e Margherita”. Senti qua…” E le avrei trafitto il cuore. Bah, non diciamo sciocchezze. Un freak è solo un freak, anche se è freak che ha letto Bulgakov.
Grigorij è in piedi ad infilarsi la sua camicia preferita, quella viola che gli ha regalato Chrome quando lo ha ospitato per un mese in Germania. Avrebbero dovuto rivedersi tra due anni, a mezzanotte, qui a Valka, sulla tomba di Vittoria, insieme agli altri.
– Spero non si offendano, ma la pace che ci siamo promessi non sono riuscito a sentirla in nessun luogo. Mai.
Pensa mentre si abbottona con calma la camicia.
Poi prende le sigarette, esce dall’appartamento e sale le scale fino alla terrazza sul tetto.



La terrazza sul tetto.

Ampia e vuota.
Contro il rosso del cielo che recede, le aguzze cime delle montagne di Gaizinkal che stringono Valka formano una linea irta di punte come l’elettrocardiogramma di un giorno che muore.
Fa freddo.
Puzza di smog e immobile indifferenza.
Dall’altro lato, il cavalcavia dell’autostrada, fiancheggiata da alti cartelloni pubblicitari, dove marciano i camion a portare in giro, come diceva Vittoria, la “polvere del mondo”.
Lo sguardo di Grigorij, si abbassa sul complesso dritto di fronte a lui: il titanico stabilimento color Bario 131 della Painstav, attraversato da un velo di nebbia appena percepibile. La fabbrica che da lavoro a tutti i giovani e i meno giovani di Valka.
– Grande bastardo di quindici piani, mi hai privato della luce per tutti questi anni.
E sputa giù.
Poi si accende una sigaretta contemplando quel brontosauro di lamiere annerite e tubi tra i quali si stagliano tre lunghe sporche ciminiere come tre nere dita mozze a ghermire il cielo. Il cuore di tenebra di questo paesino di metallo, ruggine, fumo, freddo, fame, carbone, radioattività, violenza, sesso clandestino, malattie dell’apparato respiratorio e un ridicolo cartello alle porte della città:

Benvenuti a Valka
Comune amico del Nucleare

Estinta la sigaretta, sputa il mozzicone.
Poi si sfila l’anello. Un sinistro cerchietto di metallo annerito coronato da un acuminato uncino. Lo getta di sotto.
– Prego, prima tu – sibila tra i denti.






Settimo piano, l’attico.

Mentre Grigorij precipita, i suoi occhi vengono feriti per un istante dalla sfavillante luce riflessa nel collier di Vaira Gunvaldis che alza il calice sfavillante in sintonia con suo padre, il colonnello Gunvaldis e con una ventina di sfavillanti ospiti. Lo sfavillìo incantevole sul collo di Vaira si riflette nello sfavillìo del sorriso di Armand, il portaborse di suo padre.
– É fatta Sindaco! Ora comandiamo noi. E da domani sono cazzi loro.
Lo sfavillare incantevole della luce della gioia di Armand si riflette sullo smeraldino in bocca alla testa di leone d’oro che troneggia sull’anello d’oro dell’anziano Janis, che pizzica senza sosta le guance del nipotino Lukas. L’anziano Janis ha imbustato e spedito insieme ai suoi tre figli quattromiladuecento e due lettere agli elettori e ha poi distribuito migliaia di sfavillanti santini elettorali per il candidato sindaco colonnello Gunvaldis al mercato del Parco 36, poi sulla piazza del Cavallo Buio, all’uscita della Painstav, alle scuole, davanti alla chiesa di padre Manfred, nel quartiere Bianco, dentro allo Snack Bar Poe, al Coral Club e ovunque transitasse qualcuno che abbia diritto di voto. Da quello sfavillante smeraldino la luce si riflette sulla montatura d’oro degli occhiali di Srecko, fidanzato storico della figlia Vaira nonché autista del neo-sindaco Gunvaldis. Srecko guarda la sua fidanzata con occhi colmi d’amore e soddisfazione pensando:
– E se manco adesso mi sposi, puttana alcolizzata, ti passo sopra con la macchina tante di quelle volte che finalmente potrai farci credere di essere dimagrita.
La montatura degli occhiali di Srecko sfavilla incantevolmente oltre filari di perfetti scaffali in acciaio e tek strepitosamente privi di libri, utilizzati per reggere vasi di fiori, riviste di moda di diversi formati, fino al solito eterogeneo zoo di bomboniere di cristallo.
Deflesso da una piccola sirena di cristallo, lo sfavillìo schizza fino alle unghie smaltate d’argento di Nataljia Gunvaldis, moglie ufficiale del colonnello Vladimir Gunvaldis che pensa:
– Dio, ora che torno da quell’arpia di commessa che non voleva farmi lo sconto, ora che ci torno che sono la moglie del nuovo Sindaco di Valka, mi faccio leccare i piedi fino alla prossima legislatura.
Finchè lo sfavillìo giunge al capolinea, infrangendosi nei magnifici lucidi occhi vincenti del nuovo sindaco, il colonnello Vladimir Gunvaldis.
– Ho vinto io. E ora che mi levo dalle palle ‘sta mostra-mercato di zerbini umani, andrò a far sentire a Giulietta come scopa un vincente.



Sesto piano

– Finalmente – pensa in un’istante Grigorij, mentre prosegue la caduta – finalmente vedo quel diavoletto.
Grigorij non aveva mai visto in faccia il bambino che viveva al sesto piano, ma lo beccava sempre a sgattaiolare via dal suo apprtamento dopo avergli svaligiato il frigo quando lasciava la porta aperta andando a buttar giù l’immondizia.
Il piccolo Jan, avvolto in una lacera giubbetta militare di un qualche ex-esercito smantellato, ha la testa fasciata, un lato della faccia gonfio e il labbro rotto. Trema scosso da brividi e suda appoggiato con le braccine al davanzale.
Aspettando il corpo di Grigorij.
Come Grigorij viene giù, Jan gli fa cenno con la mano, sorridendo.
– Ciao Serpentino. E Grazie di tutto.



Quinto Piano

Al quinto piano la saracinesca è abbassata.
Peccato pensa Grigorij.
In ogni caso Lo Straordinario Serpentino non avrebbe potuto dare il suo fulmineo saluto al vecchio Dimitri poiché il suo cadavere si sta decomponendo sul letto ormai da nove giorni.
Maru, il figlio, lo chiama solo a fine mese, quindi se ne accorgerà tra circa un paio di settimane.
Ogni venerdì il vecchio manifestava delle brutte macchie alla base del collo e sui polsi. Sempre e solo di venerdì.
Maru si limitava ad obbligare il vecchio a non fumare più la pipa con vari urlati diktat solo per esercitare su di lui un po’ di autorità.
In realtà ogni giovedì pomeriggio Dimitri invita Jelena a fargli visita nel suo appartamento. In realtà Jelena si chiama Giulietta, ma il vecchio preferiva chiamarla con il nome del suo primo amore sbocciato ai tempi della Scuola Primaria di Tomsk. Quando si vestiva sempre con le sdrucite camice di flanella a quadretti grandi di suo padre, dimenticandosi puntualmente di abbotonare almeno una delle due punte del colletto. Non rivide più Jelena, ma il ricordo di lei crebbe durante gli anni passati a lavorare nella base militare di Ventspils. Crebbe nei suoi pensieri e nello stretto albergo del suo cuore, collocandosi nella suite di “colei che sarebbe stata la donna giusta, la donna che mi avrebbe reso felice”.
E se finalmente, dopo tutti quegli anni, il vecchio Dimitri era riuscito a sedurre Jelena, di certo non poteva permettersi le figuracce dell’età.
Per questo motivo ogni giovedì, dopo aver sistemato per bene i bottoni del colletto della camicia, s’imbottiva di Viagra.
Mostrò ben presto, però, i sintomi di un’allergia che si fece sempre più aggressiva.
L’allergia al Viagra lo aveva messo in guardia tante volte con quelle macchie alla base del collo e dei polsi, ma il vecchio Dimitri non aveva alcuna intenzione di farne a meno perché non poteva di certo deludere la sua Jelena, che lo ha aspettato per oltre sessant’anni.
Nove giorni fa, poco dopo che Jelena era tornata a casa, iniziò a sentirsi la pressione particolarmente bassa e la laringe sembrava gonfiarsi rapidamente fino a ostruirgli il respiro.
Senza telefono né cellulare, crollò a terra cercando di raggiungere la maniglia della porta con le sue mani che diventavano sempre più scure e gonfie.
Comprendeva bene che lo shock anafilattico lo stava uccidendo, ma nei suoi occhi brillava ancora, piena e inossidabile, la soddisfazione di aver avuto, seppur negli ultimi mesi di vita, la donna dei suoi sogni, la donna giusta, la donna che amava fin dall’adolescenza.
– C’è gente che vive, lavora e poi crepa senza mai averla avuta ‘sta fortuna.
Si disse Dimitri prima di soffocare.



Quarto piano

L’appartamento di Grigorij. La porta d’ingresso si apre e Dola, sua figlia, fa capolino all’interno. Per un maledetto frammento d’istante, il suo sguardo incrocia quello del corpo del padre che precipita. Cadrà in ginocchio, si getterà a pancia a terra e non avrà più il coraggio di rialzarsi. Lo shock la condurrà a trascorrere il resto dei suoi giorni nella casa di Cura di Villa 36, costantemente distesa sul freddo pavimento di mattonelle grigie, senza mai più volersi alzare.
Per paura di cadere anche lei.



Terzo piano

L’appartamento è completamente vuoto tranne per un robusto gatto rossiccio che attende in un angolo. Uno dei “modelli” preferiti di Grigorij.
Sul pavimento è disegnato con della vernice rossa un immenso numero trentasei.
Nell’aria filtra del jazz in filodiffusione.

Fly me to the moon
And let me play among the stars
Let me see what spring is like
On Jupiter and Mars

Il gatto rimane fermo immobile come un vero professionista.
Spera che la risposta che ha tracciato possa essere ultile a Grigorij
quando raggiungerà
l’inferno.



Secondo piano

La finestra è aperta su una stanza buia, un telefono squilla a vuoto.
Un paio di forbici luccicano ai piedi di un grosso specchio tribale, triangolare, con la cornice di ebano nero intarsiato.
Nell’istante in cui precipita, Grigorij si riflette nello specchio, e si vede morire.



Primo piano

Al primo piano le finestre sono aperte su una tendina gialla maltrattata dal vento con il logo di una marca di patatine.
Il divano è lacero in più punti, le pareti sono dipinte d’azzurro da un pennellaccio affetto come minimo da alopecia. Accanto al frigo, tempestato di magneti come se avesse il morbillo, era appeso un grande quadro fatto di Grigorij. Raffigura una sinuosa gatta moschettiera che mena un fendente all’aria con tanto di cappello nero a falda larga con piuma, indossando provocanti stivali di pelle nera con tacco di lucido metallo.
Al posto delle pupille ha due minuscole mani rosse, dal palmo aperto.
Giulietta dormiva beatamente davanti alla grande Tv a cristalli liquidi, regalo del colonnello Gunvaldis, che, poggiata su una colonnina di finto marmo venato, trasmetteva a volume troppo forte un reality show dove un uomo in pigiama tenta di riprodurre l’inno nazionale lettone intonando Dievs, svētī Latviju! con i suoi rutti, per dilettare gli altri concorrenti e il pubblico a casa.
Giulietta non partecipa a questa ilarità, perché il suo corpicino di ventenne, che di anni ne dimostra a volte quindici a volte quaranta, riposa languidamente sul divano con una gamba bianca liscia che penzola fuori.
L’unico che non le abbia mai chiesto di fare sesso.
Almeno fino ad oggi.
Beatamente dorme, Giulietta, usando come improvvisato cuscino il bel vestito che le faceva sempre indossare il vecchio Dimitri. Dolcemente dorme Giulietta ma non sogna né principi azzurri né una vita migliore. Sogna solo una grande, gigantesca, immensa coppa di gelato alla stracciatella e cocco con due belle cialde conficcate come due antennine. Sogna quella bella coppa di gelato, la celebre “coppa super-gusto” che la mamma le comprava a Rīga ogni domenica d’estate.
Non doveva pensare a niente. Solo sorridere e mangiare il gelato e sporcarsi e sorridere e poi mangiare ancora.
Non doveva pensare a niente, né a piacere, né a guadagnarsi da vivere, né a scorticarsi via di dosso l’odore di quei porci né a nascondere bene i soldi, né a medicarsi i lividi.
Doveva solo affondare quel cucchiaione nel gelato, che gli colmava gli occhi di bontà e di golosa bellezza, e tirare su quel cucchiaione bello buono colmo di gelato e mangiare e mangiarselo tutto felice, sotto gli occhi felici e colmi d’amore di sua mamma, che non diceva nulla se non “è buono, vero, tesoro mio?”.
Non doveva pensare a farsi i test dell’Hiv ogni tre settimane per sapere se era viva o morta.
Non doveva fingere di essere una giovane ebrea da interrogare per il colonnello Vladimir Gunvaldis.
Non doveva immaginarsi che faccia potesse avere suo figlio, oggi che avrà sei anni da qualche parte nel mondo.
Non doveva pensare che quello psicopatico che chiama sempre alle 23.10 potrebbe entrare dalla finestra adesso e sgozzarla con un filo di nylon come le ha sempre promesso di fare.
No.
Lei doveva pensare solo a nuotare felice in quella bella grande coppa di gelato che nessuno le offrirà mai più.
Nuotare in quella grande bella coppa di gelato, lei piccola indifesa con la mano nella mano della mamma, e quando il gelato finiva, sarebbe tornata a casa a mettersi comoda per godersi due ore di colorati cartoni animati e la felicità e le risate e lo stupore sarebbero proseguiti stringendo sempre il caldo tepore della mano della mamma e tutto questo la faceva sorridere nel sonno, la faceva un po’ sorridere nel sonno ma le avrebbe reso insopportabilmente più amaro, molto più amaro l’odiato risveglio.

Grigorij in quell’istante ha voglia d’innamorarsi di Giulietta.
Ma in fondo lui non ha bisogno di lei, ne di nessun’altra, perché è Lo Straordinario Serpentino e domani tutti i suoi fan e tutti i suoi spettatori e tutti coloro che l’hanno deriso, amato, umiliato o reso famoso piangeranno per lui.

Ed è con questa speranza che Grigorij dedica a tutti loro un ultimo, definitivo, violentissimo bacio d’addio contro l’asfalto.

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5.10.07

IL DIVIN MARCHESE E LA REGINA DEL POP



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IL CATECHISMO DEL CONSUMO





Alcuni stralci dal Catechismo del Consumo “Vangelo secondo il Centro Commerciale” rinvenuti dal biodroide scout Rt-9 nella ricognizione ai confini sud-est del deserto radioattivo Cesium 137 dove, fino al primo quarto del XXI secolo, sorgeva l’Occidente terrestre.

di Philip K. Dick

(Traduzione di Giovanni Di Iacovo)

Le origini del Consumo illustrate ad un povero di spirito condannato alla lapidazione per il furto di una Playstation (dal Vangelo secondo il Centro Commerciale cap. 21,28-32).

… quindi, di Sabato, il Signore nostro Dio, la prima e più perfetta marca, la marca per eccellenza, una volta creata una terra priva di qualunque attrattiva, compra delle mele dalla dea della fertilità anatolica Cibele. Alcune le mangia lui; tre, invece, le rivende a prezzo solo lievemente maggiorato a Satana. Satana – archetipo, nella magra forma di un serpente, della malvagia sottomarca da discount per sottoproletari – ne mangia solo due e decide di rivendere la terza ad Adamo, in cambio della sua forza-lavoro. Satana, infatti, vuole piantare alberi di mele nell’Eden per esportarli all’Inferno dove, con tutto quel caldo, crescevano solo kiwi e papaye. Mentre ara e semina la terra, l’onesto lavoratore Adamo viene molestato da Eva, icona della consumatrice ingorda ma esigente, che vuole quella mela così bella, tonda e rossa.

«Ma aspetta che crescano gli alberi, dio buono! Ce ne saranno centinaia, ce ne abbufferemo!» dice Adamo.

«No. È bella. La voglio adesso» ribadisce Eva.

Il protocollo del progresso umano, basato sulla compravendita (iniziata da Dio, marca originale e unico venditore all’ingrosso, e proseguita con gli umani da Satana, la sottomarca), avrebbe dovuto perpetuarsi con Adamo che rivendeva a sua volta la mela a Eva la quale – non avendo denari né un granché di forza lavoro – avrebbe ricambiato Adamo con una congrua quota di favori sessuali. Quel fesso fricchettone di Adamo, invece, ad Eva la mela gliela regala, interrompendo il patto commerciale iniziato dal Signore e incorrendo nella sua collera fino a essere scacciati entrambi dall’Eden. Il momento fondativo del Catechismo del Consumo appare in questo modo un po’ triste, ma tra di noi ci sono anche le feste felici, come il Natale, cioè la Festa Nazionale del Consumo, dove al centro dell’adorazione non è più la Sacra Famiglia ma i tre magi commessi viaggiatori. Questi, dai tre angoli del mondo conosciuto, vengono informati da una stella cadente, simbolo dello spionaggio industriale: “grossi affari in medioriente!”. Danno quindi inizio al commercio internazionale portando al Re dei Re a Betlemme, in Palestina, cataloghi di pannolini e prodotti per la prima infanzia. Dopo queste parabole, devi conoscere i sacramenti, che marciano di pari passo con la crescita e l’educazione del giovane compratore. Con soli cento punti-spesa sulla tua Carta Clienti d’Identità clienti puoi ricevere il battesimo, che consiste nel marchiarti la chiappa sinistra con un bel codice a barre ricavato dal tuo nome. Con 500 punti riceverai la cresima, ma non potrai sposarti se non hai accumulato almeno 1200 punti. Matrimoni, per così dire, riparatori, si possono celebrare anche con 900 punti, ma si deve recuperare con una lista di nozze extra lusso. Per l’estrema unzione, invece, ci vogliono... a proposito, giacché tu devi morire... quanti punti Cliente hai?

David l’acquirente viene guidato tra le meraviglie delle miniere di Salomon Auchan (VCC 53,21-35).

Scivolammo sotto una piccola arcata accanto al privè e ci ritrovammo in una saletta esagonale illuminata con al centro un tavolo colmo di alambicchi e una specie di grande ampolla collegata, tramite tubi, a diverse sfere di vetro con dentro del liquido in ebollizione. Rubinetti, contagocce, due bariel pressurizzati in vetro e una fila di provette. Tutto immerso nell’allegro rumore di un continuo ribollire. In realtà capii subito, ma lasciai che me ne parlasse Re Salomon Auchan in persona, per non interrompere la carica positiva del suo tono inebriato.

«Questo modello in scala ridotta, perfettamente funzionante, riproduce il sintetizzatore del gas segreto che viene da sempre diffuso in ogni centro commerciale che si rispetti: l’Assenzio dell’Acquisto. Quel gas assolutamente incolore e inodore che circola permanentemente in ogni reparto per essere fatto inconsciamente respirare ai clienti nei loro giri. È il famoso gas che conduce a quella bizzarra ma utile turba mentale per la quale entri in un ipermercato con l’intenzione di comprare un pacco di farina e del latte parzialmente scremato ma poi torni a casa con un triplo lettore divx con home theatre e schermo da cinquanta pollici a cristalli liquidi in offerta, un cluster di sette Xbox in promozione, tre mensole di granito praticamente regalate, la racconta delle orazioni di Roosvelt a un prezzo ridicolo e che oltretutto ti garantisce l’omaggio della biografia di John Lennon scritta al contrario per evocare Satana. Naturalmente il gas va dosato per riequilibrare le vendite da un reparto che va alla grande ad uno che fa pochi affari del tipo: Abbiamo decine di paia di slip commestibili ancora invenduti... intensifica il gas nel reparto slip commestibili e abbassalo in quello canottaggio!. Queste sono le strategie dell’acquisto a catena che ci hanno portato all’odierno potere parareligioso. Ora usciamo, ti faccio vedere uno dei miei pezzi preferiti».

In una stanzetta illuminata da un fascio di luce gialla, sopra una colonnina lavorata, luccicava quello che mi pareva un grazioso forno a microonde collegato a quattro batterie ad acido.

«Bello, eh? L’ho ribattezzato il fornetto del “non tutto il male viene per cuocere”.Ti spiego. Alcuni giorni dopo la distruzione di Bologna ad opera degli androidi anti-lavavetri del Buddista Nero, rivoltatitisi contro tutta la città, fu sperimentato per l’ennesima volta un congegno che avrebbe dovuto permettere viaggi temporali. Quel giorno ci fu un successo iniziale. Il congegno poteva permettere il viaggio nel tempo, ma solo a creature piccole come gattini o neonati e comunque fino a non più di dieci giorni nel passato. Inutile ai fini della salvezza dell’umanità, ma utilissimo per tutte le nascenti città-ipermercato commerciali. Grazie a questo prodigio, possiamo portare i prodotti ormai scaduti dieci giorni indietro nel tempo fino a quando erano ancora acquistabili. E smerciarli a prezzi rasoterra. Discreti guadagni e tanta salute in più ».

Il monito della saggia madre alla figlia primogenita che va in sposa ad un uomo che vive oltre le Mura di Gericoop, la città-centro commerciale (VCC 43,9-15).

Tesoro, fuori non è come qui dentro le mura di Gericoop. Nessuna sorridente ragazza sui pattini passerà a suggerirti dove andare e se camminerai tra gli alberi dopo il tramonto e se qualche lugubre individuo aprirà davanti a te il suo impermeabile chiedendoti: vuoi assaggiare? be’, credimi, tesoro: non è un promoter. Sul continente, oltre le mura del centro commerciale, le distanze sono enormi, la scelta è limitata e non avrai alcun potere nonostante i tuoi punti-fedeltà sulla Carta Clienti d’Identità. Il giorno che alzerai gli occhi e al posto degli arabeschi di neon del soffitto troverai il cielo, non credere a chi ti racconta la favola della natura e della libertà. Quelle nuvole sono algoritmi e quelle stupide rondini ologrammi, che vendiamo pure noi, a soli 5 euri l’una, nel reparto Holoworld di papà.

Il canto d’amore della giovane cassiera del reparto articoli da regalo per redditi medio-alti innamorata all’addetto sicurezza del reparto cellulari monodimensionali (VCC 69,11-19).

I miei sogni danzano al ritmo della luce elettrica, la mia vista vuole perdersi tra ciò che io posso acquistare.

Io sono ciò che compro, vivo per possedere.

Quando vendo mi arricchisco, quando compro mi arricchisco.

Quando porto a casa un buffo animaletto di cristallo disegnato da Vivienne Westwood mi arricchisco.

Io sono di più, se ho un buffo animaletto di cristallo disegnato da Vivienne Westwood. Quel buffo animaletto di cristallo disegnato da Vivienne Westwood mi da il buonumore.

L’acquisto è cibo per la mia anima.

E lo è anche per te, lo è per tutti, piccolo mio, ma non posso seguirti fuori dal reparto che amo e che rappresenta il mio unico vero orizzonte. Ma ti voglio tanto bene e ti mando un bacio. Vieni a trovarmi quando vuoi. Faccio la cassiera, sono solo una dipendente, ma penso che un bel whisky potrò offrirtelo comunque. In bicchieri progettati da Fuksas e con cubetti di ghiaccio firmati Roberto Cavalli, naturalmente.

E se berrai tanto, amore mio, e se ti ubriacherai… stanne certo: sarà una sbornia di marca...”.






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ROCK'N'ROLL, PIN-UP, CUCINA MESSICANA E SESSUALITA' AUTOGESTITA -sul Summer Jamboree-






ROCK’N’ROLL, PIN-UP, CUCINA MESSICANA E SESSUALITA’ AUTOGESTITA
Reportage dal Summer Jamboree


Ci sono quelli che, come prendono sonno, sentono già lo sciabordio delle pale del Mulino Bianco ruotare nell’acqua del fiume e si abbandonano a desiderare di essere seduti accanto a quell’icona di donna alla Marta Flavi che ti versa lentamente il latte dove intingere i Pan di Stelle e gli Abbracci sorridendoti plasticamente come nel video Black Hole Sun dei Soundgarden. C’è chi, invece, come prende sonno si risveglia in uno sogno dai colori psichedelici allo schioccare della frusta di Betty Page che da il via ai Ramones per attaccare con il loro Blitzkrieg Bop mentre Tura Satana del film Faster Pussycat! Kill! Kill! marcia a versarti del Martini Rosso senza chiederti se ne vuoi.

Be’ se i tuoi sogni somigliano più a quest’ultimo, è ora che passi anche tu qualche giorno al grande festival Summer Jamboree di Senigallia.

Giunto ormai all’ottava edizione, per una settimana i residenti di Senigallia pare si dissolvano come nella Zona del Crepuscolo (o come in Fracchia contro Dracula, se preferite) mentre l’intera cittadina si trasfigura straordinariamente tornando indietro agli anni 40 e 50. Ma alla grande, mica una pagliacciata per turisti. Da tutta Italia ma anche dalla Germania, dagli Stati Uniti, dalla Spagna, dall’Inghilterra e anche dalla grande madre Russia, Senigallia viene invasa da cadillac e da ogni tipo di vettura vintage perfettamente funzionante dalla quale saltano fuori magnifiche pin-up (magnifiche in quanto pin-up) dalle frengette che ondeggiano sopra labbra di un rosso accesissimo, gonnelle corte bianche a pois rossi, camicette bianche legate con il nodo in vita e poi rockabilly di tutto il globo con il pomp, la classica banana ingellata e imbrillantinata dei rebels anni ‘50, con sotto jeans levi’s stretti (501 o 505) e scarpe Creepers. Abbinati a molto piu moderni tatuaggi coloratissimi di assi di picche, skull’n’bones, fiamme e ancora pin-up (pin-up tatuate su pin-up, una scatola cinese di frangette).

Ma non è uno sfoggio di feticisti, è tutta una città in festa totale. Ogni bar manda in loop cd swing e ogni esercizio aperto cerca di adeguarsi al clima anni ’50. Anche perché "Jamboree" viene dall'unione di jam e boy ovvero "marmellata di ragazzi" e significa, fondamentalmente, “gran bordellone”.

Il festival si articola in diversi luoghi di Senigallia, i concerti sono ovunque dalla mattina alla sera. A pranzo andiamo al Mascalzone, stabilimento sulla riviera dove si alternano band e dj set swing, surf e rockabilly, poi ti fai una passeggiata nei giardini sotto alla Rocca Roveresca, tra stand fuori dal tempo dove tribù di tutto il mondo vendono da Juke box, a quadri, a taglienti lingerie d’epoca a robba country, tra gadgets e abbigliamento nuovo e usato, sempre in stile anni 40 e 50. Poi si va in piazza dove troviamo barbiere e parrucchiera che eseguono tagli in stile rock’n’roll gratuitamente. E poi un po’ più giù ci registriamo per il corso pomeridiano di ballo boogie-woogie gratuito. E dopo aver ballato? Tempo di aperitivo in un altro locale all’aperto con dj set hillybilly e country finchè ti viene fame e scendi al ristorante Cajun a mangiare chicken fajitas con guacamole, e quesadillas, mentre, sempre nel ristorante, suonano gruppi tex-mex come Los Teribles de Tijuana. Dopodichè si va al Foro Annonario, la grande piazza di Senigallia dove si svolge la maggior parte dei concerti e dove, sotto al palco, al posto del pogo, si scatenano decine e decine di gambette e gonnelle rotanti e svolazzanti delle ballerine e ballerini di rockeroll acrobatico e di chi si cimenta come può ed è un grosso spettacolo davvero. Poi la sera si balla con concerti e dj set al Mamamia (discoteca rock tipo il Velvet di Rimini) o all’inquitante e affascinante complesso coloniale Finis Africae oppure festa in spiaggia con gare di limbo, collane di fiori, vino bianco e pesce fritto mentre suona l’ukulele della band i Belli di Waikiki, hula rock from Honolulu.

Quest’anno ci sono stati due eventi internazionali. Il concerto del piu-che-mitico pianista Jerry Lee Lewis con la sua band the Killers, ridotto però fisicamente molto male, pochi brani anche se stare li sotto e sentire Great Balls of Fire, dalla sua stessa voce, ti fa sentire davvero un atomo della storia del R’n’R.

E poi, il secondo evento è stato lo spettacolo della regina del burlesque Dita Von Teese.

Vado ad intervistarla qualche ore prima del suo spettacolo. Unica data in Europa, l’intervista era un privilegio concesso a poche testate come La Repubblica, The Sun e, naturalmente, il vostro Mente Locale!

Ma perché tanto interesse per Dita Von Teese? Perché è la moglie di Marilyn Manson? Perché è una bella femmina che molto probabilmente allo spettacolo ci farà vedere le tette?

No, a me lei non interessava più di tanto se non per quel tipo di cultura che rappresenta e diffonde.

Per la cultura di cui Dita Von Teese è figlia (non ha inventato niente ma ripropone meglio dell’originale) e di cui è in un certo senso portavoce internazionale (quindi merita stima).

Betty Page e le protagoniste del film di Russ Meyer di cui parlavamo prima, rappresentano l'anti-icona della "donna per bene", della perfetta moglie del Mulino Bianco, sia perché esibiscono la propria sessualità in un modo tutt'altro che implicito sia perché impongono la loro presenza sul mondo maschile giocando su un lato oscuro della sessualità che è molto più gustoso, gioioso, eterogeneo e intrigante delle banali “blonde bombshell” pop alla Pamela Andreson. Le spogliarelliste fumano il sigaro, portano il revolver nella giarrettiera e divengono assassine, tipacce, spietate contro i viscidi che le mancano di rispetto e in questo modo accendono sia immaginari maschili e femminili eterosessuali (sia vanilla che bdsm) che femministi e lesbici (si pensi alle L7, le Babes in Toyland, le Bikini Kill e il loro brano Rebel Girl, la scena riot grrrl di un decennio fa, il fumetto Tank Girl ma anche le dark ladies della letteratura mondiale e la presentatrice del TG3 delle 19 Maria Cuffaro), diventando oggetto di studio come nel caso del volume di Maria Elena Buszek “Pin-Up Grrrls. Feminism, sexuality, popular culture” (2006). Le raffigurazioni estremamente sessualizzate del corpo femminile, tipiche della cultura popolare, venivano create, diffuse e gestite durante la seconda metà dell'Ottocento dalle stesse pin-up (il termine deriva proprio dalla possibilità di “attaccare alla parete” quelle foto) che erano spesso attrici di teatro e che rappresentavano la "zona grigia" esistente nella dicotomia tra donna per bene (vittorianamente intesa) e prostituta (spogliarellista, ballerina, entraîneuse degli spettacoli burlesque). Queste donne frantumavano tale banale polarizzazione attraverso l'esposizione autogestita del proprio corpo nello spazio pubblico e contravvenendo all'equazione tra "donna in pubblico", ossia corpo femminile che viola la separazione tra spazio domestico e arena pubblica, e "donna pubblica" tramite l’autogestione del proprio corpo. E sottolineo l’autogestione, rimarcando che per me l’unico antidoto al dramma della prostituzione moderna è spazzare via lo sfruttamento criminale dei papponi introducendo case controllate, nel senso di costanti controlli sanitari e di polizia e facendo pagare le tasse alle donne che liberamente scegliessero questo antico mestiere. Tornando al burlesque, le attrici del teatro americano e inglese, in tempi in cui non c’era la webcam, furono le prime ad osare riprodurre la propria immagine, firmarla e distribuirla al pubblico degli spettacoli come carte da gioco, trasformandola, da un lato, in oggetto di culto (sessuale), e divenendo, dall'altro, icone della liberazione della donna dai lacci della morale pubblica e del dominio patriarcale.

Quelle donne, le attrici erano autonome sessualmente (liberatesi dall'istituzione matrimoniale), indipendenti dal punto di vista economico, organizzatrici di salotti e happening, nonché colte viaggiatrici. Una fra tutte l'ebrea americana Adah Isaacs Menken body-art performer ante litteram che morì a 33 anni nel 1868 lasciando queste magnifiche parole “Mi sono persa nell’arte e nella vita. Alla mia giovane età ho gustato la vita più di quanto altri abbiano fatto in cent’anni, quindi è con il sorriso che ora me ne andrò dove tutti vanno”. Quelle stesse donne, sul finire del secolo e all'apice del movimento suffragista femminile americano, vennero identificate con la New Woman, la donna nuova, consapevole e allo stesso tempo sessualmente attarente, mettendo definitivamente in discussione l'assioma secondo cui "la casa è l'ambito della donna".

Questa è l'epoca in cui cresce il numero delle donne laureate come quello delle lavoratrici salariate e del collasso conseguente del dogma sociale che naturalizzava la donna in quanto moglie e madre.

Eppure questo dogma sociale è ancora, nel 2007, il centro dell’azione politica dei vari partiti democristiani in Italia dove tanti predicano con furia divina l’imposizione della famiglia tradizionale e poi li beccano travestiti da camerierine tradizionali sulle tradizionali ginocchia di tradizionalissimi trans.

Ma torniamo a frangette, labbra rosso fuoco, tacchi rossi, corsetti, gonne corte e leggere, unghie lunghe, occhiali da segretaria, delle neo-pinup a spasso per Senigallia, un’estetica femminile dove forme perfette non contano affatto rispetto ai dettagli, ad alcuni dettagli precisi che sprigionano significati più sensuali di una taglia in più o in meno. Di qui la diffusione di comunità online legate al softcore burlesque e fetish come quello delle famose Suicide Girls e le spaghetti pin-up italiane Sickgirl dove, pur nell’esplicita anima commerciale, emerge un’estetica femminile in perfetta antitesi con lo stereotipo della velina.

Pamela Anderson, veline, i modelli americani di bellezza che ti fanno sembrare inadeguata solo perché non sei uguale a loro, le donne classificate a numeri di taglia, io tutta sta roba la odio quindi pure se non c’entra niente con il Jamboree scusate ma ce lo dovevo mettere.

In ogni caso, di tutto questo mondo delle pin-up e del burlesque, Dita Von Teese è la regina e la rappresentante.

Non troppo alta, vita da fakiro, magrolina, sorridente, risposte forti e decise ma mai arroganti.

Alcuni flash.

- Domande di altri giornalisti: mi scusi posso fare una domanda su suo marito Marilyn Manson?

- No, gliel fai quando lo incontri.

- Dita ma i tuoi genitori che dicono di questo lavoro?

- A quindici anni ero gia fuori di casa a trovarmi di che vivere.

Le mie domande, che a me parevano serissime, hanno fatto ridere Dita Von Teese che poi ha iniziato a fare lei domande a me mentre la simpatica sindachessa di Senigallia, seduta accanto a lei, se la rideva della grossa. Però sta storia ve la racconto di persona, che è meglio.

In conclusione non posso che dirvi che il Summer Jamboree è un bella vacanza fuori dal mondo e che Senigallia ci da un bell’insegnamento. Come una città di 44000 abitanti (un terzo di Pescara) invece che investire nelle solite boiate delle tradizioni locali, ha deciso di caratterizzarsi a livello internazionale per un tema, un mondo, una passione (come il nostro piccolo gioiello di Castelbasso) ottenendo centomila presenze (centomila, più del doppio degli abitanti!) nella sola edizione del 2007. E non che Senigallia non abbia le sue tradizioni, solo che non pesano sul presente. Ad esempio, una loro leggenda folk-metal narra del possente condottiero dei Galli, Brenno, che giunge a Senigallia, spazza via i Romani e la dichiara capitale dei Galli in Italia. La leggenda dice che nel momento di chiedere il tributo ai romani sconfitti, Brenno pose la sua spada su una bilancia e chiese il corrispettivo di quel peso in oro. Nei giorni del Jamboree del 2007, non c’è stato spazio ne per l’oro ne per le spade: su un piatto della bilancia c’era il pianoforte di Jerry Lee Lewis e sull’altro le scarpette rosse numero 38 con tacco a spillo di Dita Von Teese.

Eppure la bilancia si è mantenuta in perfetto equilibrio.

Magie del Rock’n’Roll.





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4.10.07

MISTERIOSO OMICIDIO A INTERCITY MAGAZINE -prima puntata -










PRIMA PUNTATA.

Bianco, sempre più bianco.

Ogni scalino sembra a Paolo Ferri sempre più bianco e splendente man mano che saetta su per arrivare all’ufficio di Intercity Magazine. Gli sembrano cosi bianchi e splendenti perché sente la goia dentro di se irradiarsi come una supernova su ogni oggetto. Sulla prima de Il Centro trionfava il risultato del sondaggio, l’ultimo sondaggio prima del voto di queste elezioni Comunali per Pescara 2013. Marco è in vantaggio. Marco ce la farà. Marco Santacroce sarà tra pochi giorni il nuovo sindaco di Pescara. Eppure, il centro-destra, dopo le ultime sconfitte, gli ha opposto un candidato d’eccezione come il giovane principe Emanuele Ciro René Maria Filiberto di Savoia in tandem con Lele Mora che punta all’ Assessorato al Personale con delega alle Saune per Soli Uomini.

Un programma, quello di Marco Santacroce, che si è rivelato vincente grazie a tre precisi punti programmatici:

- introduzione Quote Nere: posti in Giunta riservati a serial killer, ex-dittatori sudamericani e membri della famiglia Mastella;

- assegno di euro mille alle famiglie che chiamano i loro figli “Intercity”;

- abolizione di Alex Anconitano.

Paolo continua a telefonare a Umberto Palazzo per informarlo dell’imminente successo, ma all’ennesimo squillo a vuoto, si decide ad estrarre le chiavi dell’ufficio.

Spalancata la porta, l’ampia sala non è immersa nel solito buio. Le tapparelle sono serrate ma le pareti emanano luci come di una tenue discoteca. I quadri e i poster sono stati sostituti da decine di foto di Chuck Norris farcite da lucette psichedeliche. Sotto ogni icona sono stampati minacciosi slogan come “Chuck Norris non legge i libri. Li tortura fino a quando non ottiene le informazioni che gli servono” oppure “Quando Chuck Norris fissa il sole, è il sole a distogliere lo sguardo per primo”.

Come Paolo avanza per leggere, rischia per un pelo di inciampare in quelle che, bagnate dai colori intermittenti, si delineano come due pile di libretti con angoli bruciacchiati. Su ognuno il titolo recita: “Guida per lo Studente. Università degli Studi di Roma La Sapienza”.

“Ma che diavolo è successo qui dentro” si domanda sconcertato Paolo.

Individuato con nervosismo l’interruttore della luce, la stanza si accende rivelando qualcuno crollato su una sedia dietro una postazione.

Vincenzo D’Aquino, il direttore.

Come Paolo si avvicina, esplode in un urlo gettandosi in ginocchio dinanzi al suo amico e collega di sempre.

Qualcuno aveva reciso la gola a D’Aquino.

Nel pugno sinistro stringe una pagina dell’elenco telefonico.

Le pile di guide dello studente rovinano sul pavimento come Twin Tower.

Nella bianca e fredda luce del giorno successivo, Anita Di Biase entra in chiesa svettando esile sui suoi tacchi, stretta nell’ impermeabile con occhi gonfi di lacrime celati dietro lenti nere.

Stefano Fuggetta, alto accanto a lei, avanza in silenzio, a testa bassa.

Per amore di Vincenzo, oggi, quei due, non litigheranno.

Con un ultimo rombo a lutto, la moto di Gabriele Di Giovannantonio si arresta fuori dalla chiesa, e lui si sfila lentamente il casco.

Avanzando da dietro l’altare, sua eccellenza l’Arcivescovo Antonello Antonelli, ex co-direttore di Intercity, si palesa alla folla con un lento e maestoso incedere e fa cenno al suo chierichetto, Beniamino Cardines, di intonare un ultimo canto per Vincenzo.

La quiete viene però lacerata dalle urla di Giustino Tacconelli, che dal suo posto balza in piedi, col cellulare inchiodato all’orecchio:

- La scientifica... la scientifica… il rapporto… la gola… l’arma del delitto è un Cd… Vincenzo è stato… sgozzato con un compact disc.

In quell’istante Paolo Ferri nota l’assenza di Umberto Palazzo.

- Inoltre – prosegue Giustino - quella pagina che aveva in mano sembrava appartenere ad un elenco telefonico ma in realtà era…

Nel frattempo, però, come ipnotizzate da un flauto indiano, tutte le teste dei presenti si erano voltate verso l’ingresso della chiesa. La nera sagoma di una coppia impossibile si profila contro il freddo sole di quel sabato mattina.

Francesca Rotello, la vedova D’Aquino, marcia decisa all’interno, accompagnata a braccetto dal giovane principe Emanuele Ciro René Maria Filiberto di Savoia.

Entrambi sfoggiavano una spilla dorata raffigurante l’austero volto di Chuck Norris.

Le labbra di Francesca si tagliano d’un leggero, ambiguo sorriso e i suoi denti sono bianchi, sempre più bianchi, ad ogni passo più bianchi e splendenti.




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